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Dai mercati spagnoli ad un atelier in San Salvario: SugoLab

Dai mercati artigianali spagnoli a un atelier in San Salvario. Con questo slogan si potrebbe riassumere il percorso di SugoLab, laboratorio artigianale di abbigliamento e accessori nato dall’iniziativa di Esia e Amedeo, coppia nel lavoro e nella vita. “Abbiamo unito il talento di Esia nell’uso delle stoffe con le mie conoscenze di marketing e di economia” spiega Amedeo raccontando la storia del loro progetto. Dopo un inizio tra i mercatini di Spagna, Toscana e Milano hanno infine scelto Torino come luogo dove trasferirsi a vivere e lavorare. “Crediamo che per noi rappresenti la giusta dimensione: ha tutte le potenzialità di un ambiente metropolitano, ma allo stesso tempo l’anima di un paese, dove si può ancora avere un contatto personale con i clienti”. Non dimenticano però l’importanza che oggi rivestono i social. “Abbiamo iniziato già nel 2006 con una pagina su Myspace, e oggi abbiamo anche un sito di e-commerce”. La crescita della loro attività sta raggiungendo ora una dimensione più stabile, ma non puntano ad ingrandirsi senza un limite. “Crescere troppo in fretta è un rischio, perché a volte si è costretti a snaturarsi. Noi siamo molto legati al nostro modo di lavorare. Abbiamo iniziato dal riciclo di vestiti usati, dalle macchie di sugo…il nome che abbiamo scelto è lì a ricordarci da dove siamo partiti”.

Torino città del caffè

Torino città dell’auto e prima capitale d’Italia. Non solo però. Ciò che si dimentica spesso, infatti, è Torino città del caffè. Siamo a fine ‘800 quando due torinesi lasciano un segno talmente duraturo da giungere fino alle nostre assonnate colazioni. Il primo, Angelo Moriondo, proprietario del Grand-Hotel Ligure di piazza Carlo Felice, aveva capito anzitempo, grazie all’attenta osservazione della sua clientela, che la vita moderna è fatta sì di piaceri, ma soprattutto di fretta. Per soddisfare entrambi mise così a punto, nel 1884, una macchina per la produzione di caffè istantaneo che ebbe un tale successo da diventare quasi sinonimo stesso della bevanda: l’espresso. Il secondo torinese cui si è accennato ha invece un nome molto più celebre del primo (che è stato quasi soppiantato dalla fama della sua stessa invenzione). Si tratta di un droghiere che nel 1895 aprì un piccolo esercizio commerciale in via San Tommaso, nel centro di Torino. Come spesso capita a riguardare col senno di poi le storie di grandi avventure imprenditoriali, tutto ebbe inizio da una piccola intuizione. Anziché vendere caffè di un’unica varietà, Luigi Lavazza, eccolo il nome conosciuto, iniziò a miscelare qualità diverse di caffè provenienti da varie parti del mondo, cercando il giusto mix in grado di creare gusti nuovi e particolari. Il resto è storia, come si dice. L’azienda omonima è arrivata al XXI secolo restando legata alla sua città d’origine, pur essendo diventata una multinazionale. L’ultimo atto di questa relazione, il nuovo centro direzionale appena inaugurato nel quartiere Aurora, si chiama “Nuvola”. Come il vapore fumante che fuoriesce da una buona tazza di caffè.

Dal luogo al luogo. Riconversioni industriali

A volte alcuni luoghi hanno diverse vite. Progettati e vissuti per una funzione, divengono, nel corso del tempo, qualcosa di totalmente altro, senza però cambiare del tutto. Una delle esperienze più interessanti a questo proposito è la riconversione di luoghi industriali. Non sempre è possibile recuperare i grandi complessi produttivi, specie in una città come Torino, dove la loro estensione era, ed è tutt’ora, notevolissima. A volte però le caratteristiche proprie dell’architettura industriale – grandi spazi, luminosità, adattabilità delle superfici – vengono a combaciare perfettamente con le esigenze di luoghi espositivi e museali. Uno dei primi esempi in città è rappresentato dalla Fondazione Merz, un centro di arte contemporanea inaugurato nel 2005 nell’ex centrale termica delle officine Lancia di Borgo San Paolo. Le grandi vetrate, che permettono l’illuminazione della sala espositiva, restano a testimoniare il passato dell’edificio. Più recente è invece il Museo Ettore Fico, inaugurato nel 2004 negli ex stabilimenti della Incet di via Cigna. In un quartiere interessato da una profonda trasformazione, il museo svolge la funzione di polo di tutta una serie di gallerie e laboratori artistici in crescente sviluppo. Un ultimo interessante caso di riconversione è quello delle Officine Grandi Riparazioni. Un tempo adibite alla manutenzione dei veicoli ferroviari, questo enorme complesso industriale è interessato da alcuni anni da un importante progetto di riqualificazione. Sede di alcuni eventi in occasione delle celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia, il cuore delle OGR sta per riaprire al pubblico cittadino (la data prevista è il 30 settembre): diverrà un luogo di cultura a 360°, tra musica, arti visive, arti plastiche e architettura. Una seconda vita per dei luoghi simbolo della Torino industriale.

 

Il porto cittadino

“Qui non c’è il mare” cantava qualche anno fa, con ironica malinconia, una band torinese. Senza mare – a questo dobbiamo rassegnarci – ma con qualcosa di straordinariamente simile a un tipico porto mediterraneo. Un luogo in cui si mescolano i colori di Marsiglia, i suoni di Napoli e i sapori di Tunisi. Si tratta di Porta Palazzo (o Porta Pila per molti torinesi), vero e proprio approdo cittadino per le varie ondate di migranti arrivati nel corso dei decenni da ogni parte del mondo: dal sud Italia nel dopoguerra, poi dal Maghreb e dal nord Africa e, più recentemente, dall’Asia, soprattutto dalla Cina. Un melting pot in cui tradizioni e culture diverse si mescolano influenzandosi vicendevolmente. Così come la piazza stessa (denominata Piazza della Repubblica dopo il Referendum del ’46) in cui, all’interno del grande spazio ottagonale, convivono l’eleganza di palazzi e porticati juvarriani (recentemente restaurati) e la struttura in metallo e vetro della tettoia dell’orologio, che ospita parte del grande mercato. È infatti quest’ultimo la vera e propria calamita della piazza, il mercato all’aperto più grande d’Europa con quasi 800 punti vendita tra alimentari, ortofrutta, abbigliamento e quant’altro. Un appuntamento quotidiano che permette, in pochi passi, di fare letteralmente il giro del mondo, affiancato, il sabato, dal vicino mercato delle pulci del Balon, in cui passeggiare nel tempo tra ogni tipo di merce usata o d’antiquariato. Il grande porto cittadino, dove giungere e da dove partire.

Era una giornata primavera che sapeva di autunno…a Mirafiori

Era una giornata che sarebbe dovuta passare alla storia. Nonostante fosse primavera inoltrata a Torino c’era un cielo autunnale grigio cenere e la pioggia aveva iniziato a cadere fin dall’alba. Una lunga processione di auto aveva finalmente portato l’ospite d’onore all’interno della nuova fabbrica. Le maestranze, circa 50mila persone, erano adunati nel centro della grande pista di collaudo, bagnati e un po’ infreddoliti per la lunga attesa. L’ospite d’onore, accolto dalle autorità e dal senatore, fece un giro dei giganteschi capannoni che, di lì a poco, avrebbero ospitato le catene di montaggio trasportate dal vicino stabilimento del Lingotto, ormai divenuto insufficiente per il crescente volume produttivo. Giunse infine il momento centrale della cerimonia: il comizio pubblico. Dall’alto di un palco in stile futurista, ornato da una gigantesca incudine, l’ospite d’onore iniziò a parlare alla folla. Fu allora che accadde qualcosa di non previsto. Nel mezzo del discorso l’oratore rivolse alla folla una domanda retorica, abituato a sentirsi rispondere con un coro di “sì!”. Quella volta invece, solo le prime file, le più fedeli, risposero, mentre la grande maggioranza degli astanti semplicemente restò in silenzio. L’affronto fu tale che l’oratore quasi lasciò il palco, frenato per tempo dal senatore che lo convinse a concludere, brevemente, il discorso.

Era il 15 Maggio 1939 e Benito Mussolini inaugurava Mirafiori, il più grande stabilimento automobilistico italiano, a tutt’oggi il più antico in Europa ancora in funzione. Quel giorno passò però alla storia soprattutto come un momento di rottura, come un “simbolo della resistenza culturale” al fascismo.

Il cuore dolce di Torino

Prima di essere capitale italiana dell’auto, prima di essere capitale italiana del caffè, Torino è senz’altro la capitale del cioccolato. Il vecchio mondo scopre questa prelibatezza solo con la scoperta dell’America. Il cacao trasformato in bevanda era considerato da molti popoli indigeni la bevanda degli dei, utilizzata in cerimonie sacre. Giunge a Torino verso la metà del Cinquecento, quando i Savoia scelgono la nostra città come capitale e, per alcuni secoli resta un piacere riservato alla corte, che non perde occasione di farlo gustare ai più importanti regnanti e nobili del tempo. Dal Settecento in poi, con la diffusione dei tipici caffè cittadini, il cioccolato si apre a un pubblico più vasto. Le “invenzioni” torinesi ad esso legate sono innumerevoli: basti ricordare il bicerin, bevanda calda al gusto di cioccolato amatissima da Cavour e da Hemingway, e il gianduiotto, il classico lingotto che unisce cioccolato e nocciole del Piemonte, divenuto un vero e proprio simbolo della città. Torino, gelosa delle proprie tradizioni, vede ancora la presenza di storiche aziende che lavorano il cioccolato artigianalmente, considerando insostituibili le mani abili e sapienti dei maîtres chocolatiers. È il caso di
@Giordano, cioccolateria con una storia ultracentenaria che continua la produzione artigianale nei laboratori di Leinì. Per tutti i curiosi, e i golosi, è consigliata una passeggiata sotto i portici di piazza Carlo Felice, alla ricerca dello storico negozio dei primi del ‘900 dove gustare prelibatezze senza tempo.

Parco Dora. Tra memoria e innovazione

Uno skate park e dei campi sportivi nello scheletro di un’ex acciaieria, quattro torri di raffreddamento trasformate in un’opera di Street Art, una ciminiera divenuta il campanile di una chiesa ultramoderna. Potremmo essere a Chicago o a Londra. Siamo invece al Parco Dora di Torino, esempio riuscito di riconversione di un grande complesso industriale nella seconda area verde della città per estensione. Un’operazione in grado di offrire alla collettività un grande parco pubblico, conservando al contempo le tracce dello sviluppo industriale che ha caratterizzato il quartiere durante tutto il secolo scorso. L’intervento si inserisce nell’ambito della grande opera di trasformazione urbanistica della cosiddetta Spina centrale di Torino, considerato il più importante intervento in città dal secondo dopoguerra. Nello specifico (nell’area denominata Spina 3) i preesistenti stabilimenti di un gigante d’oltralpe come Michelin, le immense ferriere Fiat e le officine Savigliano divengono ora luoghi di una archeologia industriale carica di significato. Anzitutto quello di una città che cambia e si trasforma, ma conserva le tracce di ciò che ne ha permesso lo sviluppo. È con intento analogo che si è dato vita, nella stessa area, all’Environment Park, parco scientifico tecnologico per l’ambiente finalizzato allo sviluppo di tecnologia “green”: risparmio energetico, smaltimento rifiuti, energie rinnovabili e nuovi materiali. A pochi passi di distanza, il passato e il futuro dello sviluppo industriale.

Einaudi. Memoria e innovazione

“Lo spirito digerisce le cose più dure”. Questo il motto che ha accompagnato le edizioni Einaudi fin dalla sua nascita nel 1933. Chiara sintesi degli ostacoli cui andava incontro un’avventura editoriale in quegli anni. Non solo fare cultura, ma provare a diffonderla, come atto prima di tutto esistenziale, oltre che politico. Quando Giulio Einaudi fonda l’omonima casa editrice aveva appena ventun anni. Lo affiancano una serie di giovani che diverranno nel corso degli anni alcuni degli esponenti più importanti della cultura e della letteratura italiana del secolo: da Leone Ginzburg a Cesare Pavese, che possiamo considerare i primi direttori editoriali, passando per Cesare Balbo e Italo Calvino, nel dopoguerra. Il motto della casa editrice è inserito nel celebre marchio che raffigura uno struzzo: “uno struzzo, quello di Einaudi, che non ha mai messo la testa sotto la sabbia” affermava Norberto Bobbio. Tale atteggiamento si può ritrovare nelle parole con cui Natalia Ginzburg, altro nome legato alla casa editrice, descriveva la personalità di Giulio Einaudi: “bello, roseo, col collo lungo, i capelli lievemente ingrigiti sulle tempie come ali di tortora. […] La sua timidezza si ridestava solo a tratti quando doveva avere colloqui con estranei, e non sembrava più timidezza, ma un freddo e silenzioso mistero. Per cui la sua timidezza intimidiva gli estranei, i quali si sentivano avvolti d’uno sguardo azzurro, luminoso e glaciale, che li indagava e li soppesava di là dal grande tavolo di vetro, a una glaciale e luminosa distanza. Quella timidezza era così diventata un grande strumento di lavoro”. Un lavoro – si può aggiungere – che non ha mai smesso di rappresentare uno dei punti di riferimento della cultura torinese, e non solo.

Adriano Olivetti. La storia al lavoro tra memoria e innovazione

“Utopia” è il termine a cui più spesso è stata associata l’avventura industriale di Adriano Olivetti. Un’utopia concreta però, in cui Ivrea non aveva nulla da invidiare all’odierna Cupertino e il canavese era la sua Silicon Valley. Da quell’esperienza hanno avuto origine prodotti all’avanguardia per tecnica e design. Come la mitica lettera22, oggi esposta al MoMA di New York, o la P101, considerata il primo Personal Computer al mondo. Ma questo forse non sarebbe bastato per definirla un’utopia. Ciò che Adriano Olivetti cercò di realizzare era un connubio di imprenditorialità e impegno sociale, nel tentativo di coniugare profitto e realizzazione del lavoratore. In una parola, cara a Olivetti, creare una comunità. Per far ciò chiamò nell’azienda non solo grandi ingegneri e progettisti (come Mario Tchou) ma anche artisti, letterati, filosofi, scienziati sociali, architetti. Un luogo ibrido dove superare gli steccati disciplinari e unire il meglio del pensiero scientifico e di quello umanistico. Nel quale la figura del lavoratore (dall’operaio all’ingegnere) era considerata una vera risorsa su cui investire per la crescita, anche e soprattutto tramite la cultura.
Ma sarebbe un errore pensare a Olivetti come un intellettuale visionario, staccato della realtà in cui viveva. Con quel suo modo pacato e umile (descritto magnificamente in alcune pagine di Lessico Familiare di Natalia Ginzburg) risponderebbe con queste parole a chi parlasse della sua avventura come di un’utopia: “Beh, ecco, se mi posso permettere, spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande”.

Gianni Agnelli a Torino. La storia al lavoro tra memoria e innovazione

L’omaggio che Torino ha reso a Gianni Agnelli il giorno della sua morte ha pochi eguali nella storia repubblicana: la coda ininterrotta all’ingresso della sua camera ardente alla Pinacoteca del Lingotto, la folla che riempie il Duomo e la piazza antistante per i funerali. Per una città abituata da secoli ad avere un regnante, Gianni Agnelli e la sua famiglia hanno rappresentato il prestigio e l’unità cittadina, anche senza una vera corona a suggellarli. Fiat, Stampa, Juventus: i più importanti simboli italiani e internazionali della città sabauda sono stati gestiti dalla famiglia. Ma è senza dubbio Gianni, omonimo del nonno fondatore dell’azienda, ad aver incarnato la figura del leader. Amato e odiato, invidiato e corteggiato, è stato, a detta di alcuni, una sorta di ministro degli esteri ombra per vari decenni, grazie ai suoi contatti personali con l’alta società di tutto il mondo (si pensi alla sua amicizia con J.F. Kennedy). Un personaggio dal carisma tale da trasformare alcune sue eccentricità (l’orologio sul polsino, ad esempio) in fenomeni di costume; imitato, spesso invano, da una nuova classe emergente di giovani imprenditori nell’Italia da bere degli anni ’80. La sua esperienza alla guida dell’azienda di famiglia, cominciata all’età di 45 anni, è stata tutt’altro che in discesa: dalla Fiat vallettiana del boom economico, “l’avvocato” ha traghettato la casa automobilistica attraverso l’autunno caldo delle contestazioni operaie e dello statuto dei lavoratori, fino alla svolta – epocale per le relazioni tra capitale e lavoro – rappresentata dalla marcia dei 40mila quadri del 1980. Una figura modernissima e al contempo fortemente legata al secolo scorso (in cui grandi aziende multinazionali potevano ancora essere gestite direttamente dalla famiglia del fondatore), la cui assenza ha lasciato la città, nel bene o nel male, a dover affrontare le sfide del nuovo millennio senza una guida a cui rivolgersi.