“Utopia” è il termine a cui più spesso è stata associata l’avventura industriale di Adriano Olivetti. Un’utopia concreta però, in cui Ivrea non aveva nulla da invidiare all’odierna Cupertino e il canavese era la sua Silicon Valley. Da quell’esperienza hanno avuto origine prodotti all’avanguardia per tecnica e design. Come la mitica lettera22, oggi esposta al MoMA di New York, o la P101, considerata il primo Personal Computer al mondo. Ma questo forse non sarebbe bastato per definirla un’utopia. Ciò che Adriano Olivetti cercò di realizzare era un connubio di imprenditorialità e impegno sociale, nel tentativo di coniugare profitto e realizzazione del lavoratore. In una parola, cara a Olivetti, creare una comunità. Per far ciò chiamò nell’azienda non solo grandi ingegneri e progettisti (come Mario Tchou) ma anche artisti, letterati, filosofi, scienziati sociali, architetti. Un luogo ibrido dove superare gli steccati disciplinari e unire il meglio del pensiero scientifico e di quello umanistico. Nel quale la figura del lavoratore (dall’operaio all’ingegnere) era considerata una vera risorsa su cui investire per la crescita, anche e soprattutto tramite la cultura.
Ma sarebbe un errore pensare a Olivetti come un intellettuale visionario, staccato della realtà in cui viveva. Con quel suo modo pacato e umile (descritto magnificamente in alcune pagine di Lessico Familiare di Natalia Ginzburg) risponderebbe con queste parole a chi parlasse della sua avventura come di un’utopia: “Beh, ecco, se mi posso permettere, spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande”.