Il nome colto “ludopatia” è espressione della necessità di guardare con occhio scientifico dentro l’abisso di una dipendenza patologica di sicuro non recente: quella del gioco d’azzardo. Quel nome freddo non riesce tuttavia a rendere sfumati i contorni di quell’abisso esistenziale capace di sconvolgere la vita di chi è malato ma anche di tutti quelli che gli stanno vicino e gli vogliono bene. Anzi, quel nome sembra coniato ad arte per chiarire che sintomi e decorsi di quella malattia sono capaci di annichilire più che danneggiare.
Molti (e sempre in numero maggiore) sono però quelli che si occupano di questa patologia per contrastarla: studiosi, volontari e il Servizio Sanitario Nazionale che, attraverso i Dipartimenti per la cura e lo studio delle dipendenze, utilizza in questo modo una parte dei soldi che lo Stato raccoglie attraverso la tassazione del gioco d’azzardo. Tra le categorie professionali che si occupano di ludopatia ci sono anche i Consulenti del Lavoro che nel Festival del Lavoro 2017, svoltosi al Centro Congressi Lingotto di Torino, hanno dedicato uno spazio proprio a questo tema. Questa notizia sembrerebbe di per sé già uno scoop; la Presidente del Consiglio Provinciale CDL di Torino e il dott. Massimiliano Fico, Consulente del Lavoro (CDL) a Torino, chiariscono invece che molto spesso il CDL è tra i primi professionisti ad accorgersi della possibile esistenza di un problema di questo tipo. “Quando si susseguono a stretto giro di posta –affermano i due CDL- e senza giustificazioni relative, richieste di cessione del quinto dello stipendio, acconti sul TFR, comportamenti non propriamente irreprensibili sul lavoro… ipotizzare una realtà da dipendenza di gioco patologico diventa persino doveroso più che ovvio”.
Se è estremamente difficoltoso individuare e seguire un percorso terapeutico (come del resto per tutte le dipendenze), per quanto riguarda le ludopatie occorre dire che la prevenzione è praticamente inesistente: non può essere considerato tale l’invito a giocare “in modo consapevole” con il quale terminano (e nemmeno tutti) gli spot televisivi che pubblicizzano il gioco d’azzardo. In realtà la diffusione di quest’attività è sostenuta anche dalla sostanziale ignoranza delle modalità con cui il gioco si trasforma in dipendenza e (fatto ancora più grave) dalla totale mancanza di conoscenze delle regole matematiche che governano in modo ferreo l’esito delle giocate: a vantaggio praticamente esclusivo di chi organizza il gioco. Una carenza informativa che grava pesantemente sull’informazione giornalistica che diventa inconsapevolmente uno degli alleati indispensabili al mantenimento in vita di quello che la matematica giudica un vero e proprio raggiro. Quando nei TG si passano servizi di minuti con interviste registrate nel bar di provincia dove si è vinto (dopo anni e anni di tentativi) un “Sei” al Superenalotto, sarebbe bene concludere il servizio dicendo che il vincitore è un vero e proprio miracolato: ha centrato infatti l’unica possibilità di vincita sui 673 milioni di sicurissimi fallimenti!
Ma quasi nessuno lo sa e i giornalisti infatti “glorificano” quell’esercizio commerciale, incrementando in quel luogo le giocate, perché ignorano che una seconda vincita di analoga caratura, sarebbe di fatto tanto remota da essere in pratica statisticamente impossibile. Sono gli effetti perversi di quella che in ambito “filosofico-statistico” viene definita “euristica della disponibilità”, ovvero la falsa percezione (diffusa in tutti noi) che un fatto insolito possa facilmente ripetersi (vedi).
Diffondere quindi la conoscenza delle regole matematiche che permettono di far vincere nella stragrande maggioranza dei casi sempre e soltanto il banco risulta forse essere l’unica vera forma di prevenzione. Muovendo proprio da questa convinzione, un giovane matematico (Paolo Canova) e un giovane fisico (Diego Rizzuto), entrambi torinesi, hanno fondato una società di ricerca sulle regole matematiche che determinano le vincite al gioco ed hanno anche scritto un libro che da oltre un anno si è imposto all’attenzione dei media: “Fate il nostro gioco”, il titolo eloquente, pagine 256, 14 € (vedi).
“TAXI 1729” è il nome della società fondata insieme a Sara Zaccone nel 2012 per esercitare formazione e comunicazione scientifica con un preciso intento: unire la precisione e il rigore di cui la scienza ha bisogno con la passione e il divertimento che nascono da un modo diverso di raccontarla. Un riferimento colto (e anche un gioco matematico) è il nome scelto per la società. Come si può leggere in Rete, il nome deriva da una storia con due protagonisti: G. H. Hardy, autorevole matematico dell’Università di Cambridge, e Srinivasa Ramanujan, giovane indiano con un formidabile talento per i numeri.
“Siamo nei primi anni del ‘900. Durante i sei anni della loro collaborazione, i due sviluppano insieme intuizioni e ipotesi che si riveleranno di estrema importanza per la matematica moderna. Ma a un certo punto il giovane matematico indiano si ammala gravemente di tubercolosi e, poco dopo, muore.
Scrive Hardy:
Mi ricordo che una volta stavo andando a trovarlo a Putney, quando era già malato. Feci il viaggio sul taxi numero 1729, notai che il numero sembrava poco interessante e sperai che questo non fosse di cattivo auspicio. «No – mi rispose lui – è un numero molto interessante; è il più piccolo numero che si può esprimere come la somma di due cubi in due modi diversi».
Non solo: sommando le sue cifre (1+7+2+9=19) e moltiplicando il risultato per il suo simmetrico si ottiene di nuovo 1729. Coincidenze che, insieme a molte altre, trasformano un numero apparentemente qualunque in un piccolo simbolo del nostro modo di intendere la comunicazione scientifica”.
“Più che d’ignoranza matematica, che pure esiste –ci dice Diego Rizzuto- sarebbe più opportuno parlare di una tendenza (comune persino agli esperti di statistica) di cadere vittime di tranelli logici. Il fatto è che noi abbiamo un cervello praticamente identico a quello dei nostri progenitori di 150 mila anni fa che funziona attraverso cortocircuiti logici, vere e proprie scorciatoie che hanno un’alta probabilità d’errore (bias cognitivi). Lo stesso meccanismo che porta a perdere sempre più soldi al gioco è infatti quello che negli investimenti finanziari induce ad investire ancora di più in caso di perdite già manifestate, alzando il cosiddetto profilo di rischio”.
“Che il bias cognitivo sia una modalità logica – aggiunge il fisico torinese- comune alla nostra specie, e tutto sommato abbastanza indifferente al livello culturale raggiunto è dimostrato anche da uno studio recente di Nomisma (una società di consulenza fondata nel 1981 a Bologna da un gruppo di economisti, tra cui Romano Prodi, con il sostegno di alcune banche o grandi organismi economici, n.dr.). Questa ricerca ha messo in relazione la propensione verso il gioco d’azzardo con voti in matematica. Il giocatore d’azzardo non va benissimo in matematica e soprattutto nel calcolo delle probabilità. Ma avere buoni voti in matematica e in calcolo delle probabilità non è uno scudo capace difenderci; la conoscenza della matematica deve essere piuttosto considerata alla stregua di un siero che limita i danni di una malattia alla quale tutti siamo esposti e della quale tutti possiamo ammalarci”.